Pomodoro e proprietà nutraceutiche: nuovi due studi, nuove prospettive

Dall’originaria versione selvatica che cresceva nelle Ande al suo arrivo in Europa nel Rinascimento, fino ad arrivare ai giorni nostri, l’identità e l’impiego del pomodoro sono continuati a cambiare nel tempo. Diversi luoghi, climi, modi di coltivazione e poi una lunga storia di ibridazioni hanno prodotto molteplici evoluzioni e oggi si stima che siano circa 2000 le varietà di pomodoro al mondo. Di alcune sue caratteristiche però non abbiamo mai dubitato: il pomodoro è succoso, contiene oltre il 90 per cento di acqua, ed è rosso.

Ma i risultati di due studi scientifici, condotti in modo indipendente, hanno messo in discussione le nostre piccole certezze. Hanno evidenziato che il pomodoro non è sempre stato rosso ma lo è diventato per caso. I due studi sono stati condotti al PlantLab dell’Istituto di Scienze della Vita della Scuola Superiore Sant’Anna e all’Accademia Cinese delle Scienze di Pechino; i risultati sono stati pubblicati in contemporanea rispettivamente sulle riviste scientifiche Plant Communications e Molecular Plant.

Secondo queste ricerche i pomodori ancestrali avevano una buccia di colore viola, dovuta alla produzione di antocianine, sostanze dal potere antiossidante, e che solo una mutazione casuale del DNA ha portato a un pomodoro con una buccia di colore rosso uniforme.

Entrambi i team coinvolti in questi studi hanno scoperto come è avvenuta quella mutazione.

I frutti del pomodoro sono di colore rosso, in alcuni casi giallo, a volte striati di verde. Frutti di pomodoro di colore viola, quasi nero, sono invece molto rari, ma noti sin dagli anni ’70, quando fu identificata una varietà di pomodoro, chiamata Anthocyanin Fruit (Aft), che presenta striature viola sulla buccia. Quando questa varietà viene incrociata con un’altra, chiamata Atroviolacea (atv), si ottengono pomodori la cui buccia è di un colore molto simile alle melanzane, dovuto all’accumulo di antocianine.

Ma quale gene corrisponde ad Aft? Il genoma del pomodoro contiene oltre 30.000 geni e uno di questi fa sì che la varietà Aft presenti antociani nella buccia. Ma la sua identità era rimasta ignota fino alla pubblicazione degli esiti delle due ricerche.

Entrambi gli studi hanno evidenziato che non è la varietà dalla buccia con il colore viola a possedere un “super-gene”, in grado di produrre antociani, ma è il comune pomodoro ad aver perso questa funzione. I pomodori che conosciamo, infatti, presentano una mutazione genetica sul gene Aft che lo inattiva, mentre il gene è integro nella varietà Aft.

I ricercatori ipotizzano che i pomodori ancestrali producessero antociani nella buccia, ma una mutazione casuale nel DNA ha portato ad un pomodoro la cui buccia non era striata di viola, ma uniformemente rossa. Si ipotizza che questo frutto uniformemente rosso sia stato notato e particolarmente apprezzato e quindi utilizzato per produrre i pomodori moderni. I ricercatori della Scuola Superiore di Sant’Anna di Pisa ci ricordano che qualcosa di simile è accaduto per l’uva, le cui varietà a frutto bianco hanno mutazioni genetiche che inattivano la capacità di produrre antociani, che colorano di nero le varietà più comuni. Una sorte che si ignorava fosse toccata anche al pomodoro.

L’identificazione precisa del gene Aft consentirà ora di accelerare la selezione di varietà di pomodoro con un più elevato contenuto di antociani e quindi dotati di un più elevato potere antiossidante. Ottenere infatti alimenti di uso quotidiano, come il pomodoro, più ricchi di antiossidanti è un obiettivo della ricerca scientifica correlata alla nutraceutica.

La soddisfazione del team italiano è stata notevole anche se il commento di uno degli autori dello studio fa tristemente riflettere. “Questa ricerca – ha dichiarato Pierdomenico Perata, docente di Fisiologia vegetale della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa – ha richiesto molti anni di lavoro, in un contesto di forte competizione con alcuni gruppi di scienziati cinesi, particolarmente attivi su questa tematica di ricerca. La Cina investe oltre il 3% del PIL in ricerca, mentre l’Italia appena l’1,3%: è evidente che la competizione diventerà sempre più difficile considerando la differente disponibilità di finanziamenti per la ricerca scientifica”.  

Alessandra Apicella

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